RSS

Le caste, saggio di Carmelo Palladino

30 Apr
Le caste, saggio di Carmelo Palladino


Chi non è preso da raccapriccio, non impreca alla barbarie dei tempi, e non invoca le aure fecondatrici della civiltà, al leggere il triste fato dei popoli orientali? Tutti, dal professore di filosofi a della storia, al saccentuzzo studente di licenza liceale, parlano delle caste; ed al sol ricordarle fremono indignati d’orrore. Che erano le caste?


Tra il 1871 e il 1872 Palladino scrive Le caste, un saggio che pareva introvabile e che ho infine rinvenuto in una biblioteca di Firenze, in cui l’avvocato sviluppa il tema delle diseguaglianze, che è alla base della scottante e tuttora
aperta questione sociale. Una lettera di Carmelo Palladino ad Antonio Murgo ci consente di risalire alla circostanza, al luogo e alla data della sua pubblicazione: “Nel 1873 – fa sapere infatti l’autore – [Zanardelli] mi richiese di un articolo per un almanacco socialista: glielo detti e fu stampato nel suo almanacco”.
Tenendo presente che l’Almanacco socialista per l’anno venturo di Tito Zanardelli è del 1873 e che l’articolo era già pronto a dicembre 1872, Carmelo deve averlo scritto in quell’anno, se non prima. Anche se il destinatario privilegiato
sembra essere il sud del Regno d’Italia, dove l’industrializzazione è pressoché assente, l’ignoranza è più diffusa, il divario tra ricchi e poveri è più accentuato, il saggio è rivolto a tutti i borghesi, responsabili dei destini dei popoli d’Europa, i quali negli anni complessi della transizione da un’economia artigianale e contadina ad una industriale continuano a tenere in piedi la stratificazione sociale. Lo scopo è quello di farli riflettere e di invitarli a rinunciare ai privilegi, se non vogliono che le caste diventino la loro tomba.
L’articolo costituisce, in ogni caso, un interessante affresco dell’Italia postunitaria, fondata sulle differenze economiche, culturali e sociali della popolazione, e attesta che sotto i Savoia, come al tempo dei Borbone, ognuno muore com’è nato, dato che nessun cambiamento positivo si registra nei primi dodici anni del Regno d’Italia. Oltre a denunciare la divisione sociale, il saggio dà spazio alla differenza di genere e ironizza sulla condizione della donna borghese, sì da fare supporre che l’idea di scrivere quest’opera gli sia venuta in occasione di una vicenda personale, un mancato fidanzamento, un innamoramento. È facile immaginare che ci siano state “ambasciate” e proposte nella Cagnano di quel tempo, fra la famiglia di Carmelo e quella di qualche ragazza di “buona famiglia”. Lo strale di Palladino
è però puntato – come accennavo – soprattutto sulla casta ladronaia [la borghesia], che ha costruito la propria ricchezza sui demani ex feudali usurpati. L’articolo prospetta che nella società che nascerà dalla rivoluzione sociale, il lavoro sarà dignitoso e interessante per tutti e la scienza si porrà a servizio del progresso umano. Nel saggio Carmelo sviluppa infine la tesi che la risposta alla questione sociale è nell’AIL, ovvero nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la sola che si proponga l’obiettivo di promuovere l’eguaglianza rispettando le differenze individuali e di restituire la dignità a ciascun lavoratore, maschio e femmina.
Nell’opera Carmelo mette insomma nero su bianco le sue riflessioni, sulla donna, sul matrimonio, sulla società, sui preti, sui filosofi , sulla scienza e sul lavoro, proponendo tesi condivise dagli anarchici di diverse generazioni, di cui Bakunin, Palladino, P. Kropotkin e C. Berneri costituiscono gli esempi più significativi.
L’autore esordisce domandandosi cosa siano le caste di cui tutti parlano. Risponde dicendo che esse sono “le diverse classi sociali in cui i popoli orientali sono stati gerarchicamente divisi” e rappresentano “in tutta la sua selvaggia tirannide, il principio d’autorità”: scendono infatti “dall’alto in basso”, esimono da ogni responsabilità chi sta al vertice e negano ogni diritto a chi è posizionato sulla base della piramide sociale. Al primo posto ci sono i sacerdoti, nati dalla
testa di Brahma e perciò depositari del sapere; al secondo gli Scetria che nati dalle braccia sono predisposti a fare i guerrieri; al terzo i Vasia, ovvero gli artigiani, che hanno il compito di trasformare la materia prima, prodotta dall’ultima e quarta casta, i Sudra, vale a dire gli schiavi che, essendo “surti dai piedi”, svolgono le medesime funzioni degli animali. La quarta casta costituisce perciò “l’istrumento” utile alla terza classe per produrre ciò che quest’ultima divora
insieme con le altre due. L’avvocato prosegue accennando al principio dell’autorità discendente delle caste indiane che, mentre dà agio a chi sta in alto, non riconosce la dignità degli inferiori, difatti “potea benissimo il Brahmino fare gli
occhi dolci alle fi glie dei guerrieri; potea menarle spose, ed esse doveano reputarsi onoratissime di essere elevate a tanta altezza […]. Del pari un guerriero potea scegliersi un’amante, od una moglie tra gli artigiani; e tutti insieme cercare tra gli schiavi se qualche fi ore smarrito fosse in tanta abbiettezza germogliato. Ma guai se si fosse voluto seguire l’ordine inverso, ed il componente una casta inferiore avesse levato gli occhi, ed aguzzato il desio verso le beltà che risplendevano nelle superiori. Era questo un delitto da pagarsi col capo”.

Più avanti Palladino confuta l’ipotesi di chi crede che le caste siano un ricordo del passato e individua alcune analogie con le divisioni sociali presenti in Occidente, dove al primo posto ci sono i sacerdoti, i nobili e i ricchi che, uniti da medesimi interessi, “formano una sola e terribile casta”, la casta “ladronaia”: presente ovunque, essa s’impossessa del potere, manipola la scienza e usa la ricchezza per esercitare ogni autorità. Alla seconda casta appartengono gli “eserciti permanenti”, i cui elementi – figli del popolo – eseguono ciecamente e violentemente gli ordini dei notabili, per tutelarli da chi intende attaccare “l’arca santa del potere e della proprietà”. Della terza casta fanno parte “i capi-fabbrica e gl’intraprenditori”, che Palladino elenca solamente. Nella quarta si trovano i miseri operai e gl’infelici
lavoratori dei campi che, strumenti nelle mani di proprietari e capitalisti, si distinguono appena dalle bestie. Come in un palcoscenico, nel saggio si avvicendano, quindi, personaggi caricaturali: il reverendo irriverente, al cui cospetto è
costretto ad inchinarsi il lavoratore; il borghese paffuto, che sdraiato nel cocchio fastoso irrompe tra la folla con i suoi cavalli e costringe tutti a fargli ala; la gran dama, “che sepolta nei suoi velluti aggrinza le nari, s’irrita, sbuffa incollerita se solo un monello o una cenciosa fi glia del popolo le passa dappresso”; il “povero diavolo di un contadino” costretto a levarsi il cappello, ad ascoltare le ingiurie del padrone e a riverirlo. Uno scenario molto più triste di quello presente nelle società orientali – prosegue l’avvocato – perché presso di noi, popoli liberi e civili accadrebbe il finimondo “se un cencioso, uno straccione, uno spiantato, un verme del volgo ardisse spingere il guardo fino a qualche Dea del mondo borghese”.

Palladino va poi alla ricerca delle conseguenze nefaste di quest’ordinamento sociale, che obbliga i maschi a condurre in sposa donne del loro medesimo rango, e le rinviene nell’indebolimento della “specie” dei borghesi, “lunghi e stecchiti, pallidi e scarni, scheletri ambulanti, ombre di uomini flaccidi, magri, pallidi già a vent’anni”. Le trova nei matrimoni contrattati e nell’infelicità delle donne benestanti, che vivono nell’attesa, non sempre coronata da successo, di
trovare un marito del proprio rango e che nel frattempo s’imbellettano per nascondere la propria laidezza. Abbozza qualche rimedio per rinsanguare la “specie” dei borghesi, da lui intravisto nel matrimonio intercasta.

La lunga tesi in premessa costituita dalla presentazione delle caste indiane e l’antitesi rappresentata dalla descrizione delle caste e dei costumi occidentali si ricompongono nella sintesi che vede entrare in scena l’Internazionale, la “bestia
nera” dei ricchi e dei potenti, che propone due antidoti a suo parere molto efficaci per contrastare i mali sopra citati: l’abolizione delle classi sociali e l’istruzione integrale degli individui di entrambi i sessi. Quest’associazione farà cessare le ingiustizie e le infamie della presente società e ne edificherà una nuova, senza più ipocrisie, frontiere o leggi che impediscano di amare chi ci piace o di svolgere il lavoro per il quale ci sentiamo portati. L’Internazionale darà il potere al popolo dei produttori – perché tutti lavoreranno declinando facoltà intellettive e abilità manuali – e restituirà la dignità a ciascun lavoratore di genere femminile e maschile, perché tutti saranno istruiti e potranno disporre del tempo libero tramite la riduzione delle ore lavorative.

Prendendo a prestito la tesi di Franklin, in base alla quale “se tutti gli uomini lavorassero, basterebbero due ore di lavoro al giorno per produrre quello, che ora si produce in quindici”, Palladino confuta le affermazioni dei “cianciatori di economia” per i quali diminuendo le ore di lavoro decresce la ricchezza e la prosperità di un popolo.

Mentre l’articolo volge al termine, l’avvocato fa l’apoteosi del lavoro dignitoso, che egli propone in alternativa a quello
disumano, e della scienza positiva, che contrappone a quella sofi sta. Auspica che lavoro e scienza sin qui divisi si stringano la mano per aiutare l’uomo a migliorare le condizioni materiali e morali della propria esistenza e a costruire un mondo più umano. L’avvocato passa, infine, in rassegna gli ostacoli frapposti dalla casta
dei reazionari, interessata a conservare lo status quo ante: “L’Internazionale – si legge nella chiusa – è proscritta dai re, dai ricchi, e dai padroni. I preti l’anatematizzano; i governi di tutti i colori convengono, e s’intendono sulla scelta dei mezzi per schiacciarla, distruggerla, estirparla col ferro e col fuoco d’in sulla terra; ed i borghesi non potendo far altro, l’odiano a morte”. Egli è però fiducioso che l’AIL vincerà le resistenze dei conservatori essendo espressione dei bisogni del popolo vivente, il quale è invincibile e immortale. L’Internazionale seppellirà anche i borghesi se non rinunceranno alla casta. “Dunque scegliete – intima infine –: o non più caste; o le caste saranno la vostra tomba!”.

 
Lascia un commento

Pubblicato da su 30 aprile 2021 in storia

 

Lascia un commento