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Festeggia il Natale, con i “capitoni” del Varano, il piatto della tradizione

29 Dic

Art.  4.12. 2006

 

 

 

Festeggia il Natale, con i “capitoni” del Varano, il piatto della tradizione

 

Anguille “capetune” e “capemazze”, spigole, orate e cefali pescati nelle lagune di Lesina e di Varano, sono i piatti della tradizione del Gargano e di Capitanata. I cagnanesi, il giorno della vigilia, sogliono tuttora pranzare con li sìnepe pe l’agnidde, un piatto composto da una  verdura dal sapore leggermente amarognolo e da un pesce gustoso, pescato nelle acque del Varano. In alternativa, preparano le anguille al forno, e, ancor più, alla brace, dopo averle incise dalla coda alla testa, o, come si dice sul posto, spaccate, sventrate, lavate e asciugate, salate e cosparse di  scerefenocchje, (semi di finocchio selvatico). In questo caso, si scelgono le più grosse, ovvero, le anguille femmine, dette capetune.

Per rendere omaggio alla tradizione e soddisfare il fabbisogno di ogni cagnanese, ma anche dei cittadini forestieri richiamati dai nostri gustosi pesci, i pescatori solevano riporre il pescato nelle marotte, casse costituite da listelli di legno, opportunamente connessi, collocate al di sotto del pelo dell’acqua, ben chiuse, sorvegliate per diversi mesi, fino al giorno antecedente la vigilia di Natale. Quando si aprivano le marotte era festa grande. Con un po’ di fortuna, i pescatori avrebbero potuto procacciarsi il reddito per tutto l’anno ed estinguere, così, i debiti contratti nell’attesa della grande pesca, preannunciata dalla scurda (novilunio) di novembre, accompagnata però da venti forti.

Era festa anche per i rivenditori, presso i quali le famiglie andavano a fare i pochi acquisti, in genere pane, pasta e zucchero, la bottiglia del vino, la suolatura delle scarpe, la rete e il filo da pesca…, con la carta, opportunamente piegata, dove erano riportati data, prodotto comprato e relativo costo. Gran parte del pescato era venduto ai commercianti e una parte era riservata per sé. Ogni pescatore portava, perciò, a casa una porzione di anguille, per il consumo familiare, ma soprattutto per farne dono ad amici e conoscenti.

Il “dono” assumeva allora un significato simbolico molto importante: consolidava ruoli e amicizie, rispetto e coesione sociale. Il pescatore regalava, dunque, anguille o cefali e spigole, il pastore carni e formaggi, i contadini scartellate e crùstele, che sono i dolci tradizionali. Per le strade era un via vai di ragazzini, le mani impegnate a sorreggere vassoi, panare o più semplicemente  la chemmogghja, vale a dire il dono avvolto nel classico tovagliolo bianco, tessuto con telaio a mano, sfrangiato e ricamato a punto croce.

 

 

Le lagune, “ori” del Gargano molto poco valorizzati

 

Le lagune di Lesina e di Varano, questi biotipi interessanti e dall’indubitabile valore culturale ed economico che oggi versano in uno stato di abbandono, in passato costituivano un punto di forza dell’economia e non solo di quella locale. Le loro acque hanno infatti distribuito grandi quantità di pesci e uccelli acquatici, le folaghe in particolare.

La Cronica casinensis testimonia le molteplici donazioni di duchi, principi, abati e privati cittadini, sin dal tempo dei longobardi, ai monasteri di Montecassino, S. Vincenzo al Volturno e S. Sofia di Benevento. Insieme a terre, vigne, chiese e conventi, si donavano allora anche pescherie e fiumi. Era, infatti, molto vantaggioso per i monasteri del Beneventano vantare possessi sulle lagune, sia per avere uno sbocco sul mare, sia per controllare i diritti di pesca, traendone così profitto, sia per disporre del pescato in un tempo in cui le loro mense erano carenti di carne.

Grazie alle donazioni, legittimate dalla pietà, ma soprattutto dalla logica dell’investimento, i monasteri divennero, dunque, centri di potere. La Cronica riferisce, ad esempio, che il duca Grimoaldo III nel 788 concesse a Montecassino totam piscariam de civitate Lesina, una cum ipsa fauce sua. Dice, inoltre che al tempo dell’abate Bertario (856-883) un certo Leone e sua moglie offrirono a San Benedetto, tra gli altri beni, una corte de lacu Romani [lago Varano] cum piscatione sua e con ogni pertinenza. Le donazioni erano spesso condizionate. Tra il 914 e il 934 furono donate, infatti, al succitato monastero la piscaria di Lesina a patto che ad ogni calende di ottobre per 15 anni certi Gualarno e Gadelaito dessero pisci centum et ovia tareca copple quinquaginta. Le uova di cefalo in salamoia erano dunque già in commercio.

In epoca moderna, quando i diritti di pesca dei cittadini vennero contestati, contesi da e tra abati e feudatari, si addivenne alla seguente  capitulacjone: i signori di Vico e dj Schitella, dovevano versare la decima integrale del pescato, 50 capitoni freschi, bonj e grossi, 4 sacchette di anguille e uova di bottarga nel giorno della Natività. Alla metà del Settecento i capitoni nel Varano si erano moltiplicati, perciò furono anche tassati, come le anguille maretiche e le pantanine. Allora i pescatori di Cagnano costituivano il1 8% di capifuoco e producevano l’8% circa del reddito. Va considerato, però, che il signore feudale del posto, Luigi Paolo Brancaccio, da solo produceva oltre il 34% del reddito netto imponibile e la chiesa circa il 16%; che i pescatori in quel tempo furono ostacolati nell’esercizio del diritto di pesca da feudatari e abati, che vantavano possessi sul lago.

 

 

La festa della pesca nel Varano

 

Nel plenilunio di dicembre cadeva la festa della pesca. Brancaccio, principe di carpino e duca di Cagnano, seguito dalla corte e dai pescatori più esperti, a bordo di sànere o chiattune (imbarcazione tipica del luogo), buttava per primo le reti nelle acque più pescose del Varano, catturando molti capitoni, anguille e cefali, abbagliati dal lume della lampara. Sempre secondo la tradizione, l’ultima festa della pesca risale al 1926, protagonista Giovanni Sanzone Brancaccio.

 

 
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Pubblicato da su 29 dicembre 2007 in piatti della tradizione

 

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